di Claudio Strinati

Il punto cruciale del progetto di Stefano Mainetti è in una singolare e innovativa dislocazione del discorso musicale dotato di una sua specifica spazialità all’ interno della quale è possibile compiere esperienze di tipo percettivo dove pittura e danza partecipano su un piano di assoluta omogeneità alla realizzazione della strategia messa in atto da Mainetti stesso.
E’ molto suggestiva e carica di senso l’ idea centrale del Rendering Revolution che consiste, per l’appunto, nella creazione di un centro da cui tutto si diparte e a cui tutto torna. Parlare di spazio, in questo caso, non è una metafora ma una concreta modalità di fruizione in quanto l’ ascoltatore–visitatore del progetto deve partire da un nucleo centrale che collega tutto e deve ritornarvi se non altro per riscontrare quello che inizialmente potrebbe avvertire in modo vago e indistinto. E cioè scopre e verifica il principio della connessione, presupposto primo e imprescindibile del progetto. Chi esce dal brano musicale centrale si incammina verso uno dei quattro spazi che lo portano a scoprire un’opera figurativa percependo altresì il movimento che da questa promana quando è riuscito a cogliere la connessione col testo musicale che nel frattempo si è materializzato al suo ascolto. Ecco allora che il fruitore ha compiuto un tragitto ma deve proseguirlo tornando verso il centro e incamminandosi verso una seconda, una terza e una quarta direzione. Il passaggio dal testo musicale che si ascolta nel centro a quelli che si ascoltano alla periferia di questo cammino è lento e progressivo così che a un certo punto del tragitto l’ascoltatore capisce di non stare più ascoltando il brano che ha sentito al centro ma un altro del tutto diverso ma scaturito da quello. Scaturito organicamente, beninteso, anche se ognuno dei quattro brani dei “corridoi” di transito è dotato di un suo precipuo carattere espressivo e strutturale, che lo connette con l’ immagine che in quel corridoio si vede. Quando ci si accosta al notevole dipinto di De Magistris Tango si sente chiaramente come il tema promanante dal centro abbia subito una lenta ma implacabile metamorfosi diventando adesso una danza spettrale, di nitidissima evidenza e di caleidoscopica mutazione, proprio in coerenza con il dipinto. Ci si convince che il criterio della metamorfosi è qui da distinguere nettamente da quello antichissimo della variazione, mentre qui il termine “metamorfosi” potrebbe essere utilizzato nel senso conferitogli da Richard Strauss in una sua tarda composizione dove il tema della marcia funebre dell’ Eroica di Beethoven è sotteso a tutta la composizione con infinite varianti, spostamenti e aggiustamenti ma come tale compare non all’inizio ma alla fine quando il percorso è ormai compiuto. E la metamorfosi continua quando ci incamminiamo sugli altri tre percorsi. Prima arriviamo a Piranesi e la musica si fa come rarefatta, sospesa sull’ abisso della pantonalità e atonalità mentre assume sembianze apparentemente minacciose e rischiose; poi arriviamo a Braque e la musica diventa astrale, il ritmo resta ferreo e implacabile ma sembra come perdersi in un fiume carsico che scompone e ricompone gli elementi compositivi secondo quell’ impulso all’ “animato” così tipico della musica francese del primo Novecento, una indicazione agogica non facilmente spiegabile nel dettaglio ma sedimentata nella memoria storica del nostro tempo . E poi da Braque si arriva fatalmente a Picasso e a Guernica, una delle più alte opere del nostro tempo. E qui la musica riprende a pulsare orgogliosamente e dottamente, carica di impulsi e di energia, Così si rafforza quell’ idea di un anello centrale che regge tutto e da cui promana quel senso di fermezza, pienezza della mente, pacificazione, rasserenamento che giustamente sono gli stati d’animo da cui si può e si deve partire e poi tornare nel percorso dell’ esistenza stessa di ciascuno di noi.
Così il cammino dell’ ascolto è veramente una metafora del vivere a proprio agio, nel senso filosofico del termine come raccomanda Heidegger in un suo testo di grande impatto (gli Holzwege), là dove la percezione dell’ “agio” corrisponde all’ eterno mito della felicità, inattingibile ma sempre agognata dall’ essere umano.
Questo progetto di Stefano Mainetti è un Hortus Conclusus della percezione artistica in senso lato, basata su presupposti musicali di ferrea struttura e di amabilissima percezione.
Dunque un’ opera d’ arte unitaria ed efficace che marca una tappa assai interessante e significativa del nostro tempo affannato e incerto ma più che mai desideroso di un punto di approdo e di quiete. Una quiete però, che nel progetto di Stefano Mainetti continua a alimentare la riflessione e il piacere estetico.